Il Mondiale atteso da tempo, quello del grande salto mediatico, quello capace di catalizzare per un’intera settimana le attenzioni tutte del variegato mondo del mountain e trail running internazionale. Anche per chi del prodotto aveva sempre diffidato, difficile questa volta dirne meno che bene. Lo si sia seguito in presa diretta, live dai sentieri di Innsbruck e dello Stubai, oppure diversamente live, dallo streaming diffuso sugli schermi di casa, la sensazione è diffusamente stata quello di un Campionato Mondiale cui meritava di esserci. E che meritava di essere raccontato.

Sui risvolti numerici legati alla copertura mediatica e sulle ricadute dell’importante investimento del “sistema Tirolo”, pubblico e privato, sull’evento ci sarà modo di tornare, magari anche sulla base dei dati che potrà produrre nelle prossime settimane il Comitato Organizzatore di WMTR Innsbruck-Stubai 2023.

Sono invece temi prettamente tecnici a focalizzare le attenzioni di questa nostra chiosa finale su di una rassegna iridata arrivata anche per noi al culmine di un lungo cammino, iniziato quando seguire questo tipo di evento profumava di trasferte e scritture a tratti quasi goliardicamente eroiche e che, idealmente almeno, si ispiravano anche a perle rubate ai maestri del racconto sportivo. “Un buon Tour de France ha bisogno di un amico che guida e di buoni compagni di viaggio”, scriveva in fondo Gianni Mura. E noi, interscambiandoci i ruoli, l’uno come gli altri, li abbiamo sempre avuti. O perlomeno, lo siamo spesso stati.

Dal punto di vista tecnico…

Dovessimo basarci soltanto sui mammasantissima punteggi ITRA, si potrebbe forse anche finire per dire che ugandesi e keniani non corrano poi così forte sui sentieri: lo fa forse chi vince, e poi ancora, gli altri decisamente meno. Oppure che il Cesare Maestri di turno sia si forte, ma che l’eccellenza assoluta, quella no, non lo riguardi minimamente. Il tema rimane, nello specifico, che gli algoritmi su cui si basa il sistema, ancora – chissà mai se e quando – non riescano ad entrare bene in gioco quando si tratti di fare corretta sintesi delle performance sulle distanze più brevi, quelle peraltro più lontane da storia, obbiettivi e interessi dell’associazione.

Fortuna che, l’analisi tecnica spesso dica altro e che stupore e ammirazione, alias mascelle aperte in presa diretta, riescano spesso a descrivere impressioni più veritiere. Quanto forte si è corso, là davanti, tanto nel Vertical quanto nel Mountain Classic, prima a Neustift e poi ad Innsbruck!

Se a grandissime linee ci sono state gare con e senza Africa, con più o meno spazi per le Nazioni storicamente più attive sui sentieri, è soltanto nelle gare maschili che Kenya ed Uganda sono però riuscite a fare man bassa di podi e dintorni. Non è dinamica ignota a fondo e mezzofondo, specie di qualche anno fa, il fatto che al femminile spesso il mondo bianco che corre a lungo abbia saputo trovare spazi maggiori. Entrano in campo fattori legati all’espressione della forza, temi che sui sentieri potrebbero arricchirsi di dettagli utili da studiare e analizzare con maggiore attenzione.

Un dato però è certo: alcuni risultati da top ten, quelli ad esempio pescati dalla coppia azzurra Maestri – Chevrier nel mountain classic nella giornata di chiusura, valgono tanto per davvero. Così come tanto vale quell’argento a squadre, frutto anche della crescita di un Alberto Vender che ha costruito questo risultato soprattutto con l’umiltà di chi, tra inverno e primavera, è andato a cercarsi un miglioramento sul piano senza il quale, su questo format di gare, ormai è diventato praticamente impossibile ricarvarsi anche quel poco di spazio rimasto. Utile ricordarselo, anche nel leggere le prestazioni dei tedeschi Filimon Abraham, Laura Hottenrott e Dominika Maier, così come degli spagnoli Alejandro Garcia e Andreu Blanes, il re dell’ultima Sierre Zinal. O della regina Grayson Murphy, forse più che mai, tanto per restare in tema di corone.

Al netto di quanto sopra, ad impressionare in questo Mondiale è però anche la densità dei risultati, con Nazioni nuove – vedi la Cina, vedi il Sud America – ad occupare posizioni subito a rincalzo della top ten e ad allungare in modo esponenziale le fila di quanti corrano veloci, più o meno a lungo, pur finendo fuori dai radar delle posizioni più nobili.

Spesso a dire tanto sulla densità della prova maschile così come sul valore di una prestazione al femminile, è il posizionamento della prima donna in una reale o ideale classifica generale. Andrea Mayr, signora del Vertical, si inserisce al 55° posto in un’ipotetica classifica assoluta, Clementine Geoffray al 39° dello Short Trail, Marion Delespierre al 43° del Trail Long, Grayson Murphy al 48° del mountain classic. Occorrerebbe ricordarsi allora dove direzionare lo sguardo, anche quando talvolta ci si impressiona, raccontando di gare nostrane e di donzelle dominanti in senso assoluto.

E’ tema che, come si può bene vedere, riguarda un po’ tutti i format di gara, segno che la densità di presenze in questo Mondiale abbia probabilmente fornito una cartolina quanto mai realistica dei valori in campo: in fondo, è quello che si chiede ad una rassegna iridata. Certo qualcuno mancava, ma in tanti per davvero questa volta c’erano.

Ad impressionare…

Andrea Mayr e Grayson Murphy, non c’è dubbio, Tove Alexandersson non di meno, così come il Patrick Kipngeno della salita, la replica di Stian Angermund nello Short Trail e lo show dell’intera Francia nelle prove del Trail. Con la Spagna in difficoltà nel campo in cui la storia la voleva protagonista, con più Nazioni in posizioni da medaglia, ivi compresa una buona Italia, è davvero la grandeur transalpina ad uscire ringalluzzita dalla rassegna austriaca, mai avesse avuto bisogno di essere ancora rinfocolata.

Impressiona la densità di performance nello Short Trail, così come l’intensità delle due primattrici al femminile: che gare per Geoffray e Wyder, che duello il loro! Impressionano i 23 anni di Benjamin Roubiol, il francesino che si è fatto beffe di caldo e chilometri nel finale del Trail lungo. E del nostro grande Andreas, anche e purtroppo.

Ma appena un poco più in profondità, è clamorosa ad esempio la forza del gruppetto di juniores svizzeri, per lo più pescati tra orienteering e triathlon come spesso ultimamente accade tra le fila rosso-crociate: addirittura capaci di far tremare l’Uganda, anche al netto di qualche disavventura di questi ultimi sul non così ben segnalato percorso dell’ultima giornata. Commistioni da provare ad esplorare anche in casa nostra, pur potendo gioire eccome sin da ora del talento di Lucia Arnoldo, la bellunese che un sabato mattina ha deciso di far sognare fino in fondo tutta la corsa in montagna italiana. Davanti a lei, soltanto, due giovanissime su cui Gran Bretagna e Spagna puntano forte per davvero, tanto nel cross quanto sulla pista e…sui sentieri. A perfetta sintesi dell’universalità della corsa in campo giovanile.

Casa Italia

Nella nuova classifica per Nazioni l’Italia è seconda, alle spalle della Francia e davanti agli Stati Uniti. A guardare il medagliere, invece, Italia nona, penalizzata dalla mancanza dei metalli più pesanti. Se si conteggiano infine il numero di medaglie, Italia terza con i suoi sette podi, alle spalle della Francia (11), vera regina della rassegna, e del Kenya, che lascia Innsbruck con nove medaglie, per la prima volta in tutto e per tutto davanti ai rivali dell’Uganda anche sui sentieri.

In questo tipo di conteggi, da sempre si tira un poco l’acqua al proprio mulino, valorizzando ora una ora l’altra graduatoria, a seconda della convenienza. La classifica per Nazioni premia però la profondità del movimento più ancora che le eccellenza individuali: un tributo, forse anche, agli investimenti che le singole Nazioni fanno in questo specifico settore.

Quattro medaglie a squadre, tre nel trail, una nella corsa in montagna più tradizionale, tre al maschile, una al femminile. Mai oltre il sesto posto le squadre azzurre, con maggior fatica al femminile – sì, è vero – e tre quarti posti, due dei quali destinati alle compagini juniores. A livello individuale, vetrina ovviamente per l’argento di Andreas Reiterer – altro passo ancora verso l’alto – e per i sorprendenti quanto graditissimi bronzi di Luca Del Pero e Lucia Arnoldo. Top ten che sorride anche a Martina Valmassoi, quarta nel Long Trail, a Francesco Puppi, sesto nello Short Trail, a Cesare Mestri e Xavier Chevrier, rispettivamente settimo e nono nella prova conclusiva. Anche da questi dati si comprendono bene profondità e densità tecnica di questo Mondiale.

La sensazione di un’Italia che, sulla scia di una guida importante come Martina Valmassoi, abbia raggiunto una bella solidità di squadra nella prova più lunga al femminile, così come nello short trail maschile, ma anche l’impressione di una coperta un poco più corta nelle altre due prove a squadre del programma trail, con note comunque di merito specie per Cecilia Basso e Davide Cheraz. Il prolungamento di un’irripetibile storia azzurra nell’up&down maschile, ruggiti di carattere nel Vertical femminile, con volti nuovi a rompere invece il ghiaccio in quello maschile.

Impressioni, sensazioni. E la consapevolezza che scenari ulteriormente in evoluzione potranno attendere gli azzurri tra due anni sui Pirenei spagnoli. Canfranc chiama, appuntamento iridato al 25-28 settembre 2025. Chissà mai, ne scriveremo forse ancora.

Foto: Marco Gulberti