La sua non era cronaca, ma racconto. La sua prosa, articolata e nel contempo filante, amava toccare i confini della poesia, rifuggendo con sdegno e intelligenza il limite della retorica a buon mercato.
Alla sua penna piaceva, di tanto in tanto, pescare tra le pieghe della mitologia, portando in luce cultura e inventiva di quell’uomo grande, sincero e ironico, che la teneva tra le mani. Tantalo e Sisifo piacevano anche alla sua voce, di certo non di meno. Penna e microfono, microfono e penna. E una passione pura, tangibile, per tutto ciò che raccontava.
Amava la montagna, Giovanni Viel, amava lo sport e la fatica. E ne sapeva disegnare i confini, allargandoli sempre un poco, emozionando come pochi altri mai quando decideva di raccontarli. Per professione e propensione poteva scrivere e parlare di tutto, ma quando gli toccava di farlo per sci di fondo e corsa in montagna gli si illuminavano allora gli occhi. Gli si allargava il cuore, e non lo fermava più nessuno: forse lui il primo, più ancora di atleti, tecnici e dirigenti, a tracciare la via per incontri fruttuosi tra discipline di fatica invernali e la corsa sui sentieri.
Amava il suo bellunese, un territorio visceralmente vissuto anche professionalmente, ma rivendicava con orgoglio le sue origini valdostane e le vicende familiari che lo avevano visto nascere a Cogne piuttosto che all’ombra del Nevegal. Terre di montagna e di sport in entrambi i casi, capaci di ricordargli quel rapporto schietto con la fatica che esaltavano le corde più belle del suo scrivere, del suo parlare.
Gli atleti evocati dalla sua voce non erano soltanto nomi, ma diventavano di colpo pennellate di colore tra valli e confini montani, divenivano affreschi di storie sportive, con il consueto apprezzamento sincero per il lavoro di ogni piccola, grande culla di talenti, di ogni bacino di cultura sportiva.
Con il microfono in mano, giocava tra parole e silenzi, lasciando impresse nella mente pagine diversamente uniche per più di qualche generazione sportiva, tanto nel fondo quanto nell’atletica e nella corsa in montagna. Sui sentieri, la sua stentorea voce a commentare infinità di prove di campionato italiano, così come tutti i principali appuntamenti internazionali ospitati dalla corsa in montagna italiana per almeno due decenni.
Giovanni per Bertolla e compagni in Valle di Susa nel 1992, così come per Rosita a Sauze d’Oulx ancora, dodici anni dopo. Lui ad Arta Terme per la doppietta di Marco e Lele, lui a Campodolcino per Elisa e Xavier. Lui al Tonale nel 2012 per Valentina, Giovanni lassù in cima due anni dopo, nel punto più alto della cava, a Casette di Massa, tra il bianco del marmo e un pubblico da sogno. Tra un “attenzione” e un “colpo di scena”, tra un nome e una pausa, tra un racconto filante e un altro immaginato a dispetto di comunicazioni vacillanti, a tornare in mente oggi, con il nodo in gola, è proprio quel suo “Berny Dematteis” a rimbombare tra le pareti di marmo e il boato della folla, nel momento in cui il gemello di Rore riemergeva dalle parti del podio, nell’improba sfida con quel nugolo di ugandesi ed eritrei.
Tra le pagine de “La Corsa”, per oltre un decennio, la sua prosa era diventata la cartolina di un intero movimento, ridisegnato anche all’insegna di qualche soprannome rimasto nella memoria di tanti. Piccoli vezzi ironici, giochi tesi tra favola e territorio, legati ora al nome di Fausto Bonzi, il batuffolo di Dossena, ora a quello Antonio Molinari, il camoscio di Civezzano. E poi ancora, la maestrina di Puegnago, Maria Grazia Roberti, e la fatina di Introbio, Rosita Rota Gelpi, ma anche la coppia d’oro rappresentata dal pirata dello Stelvio, Marco De Gasperi, e da Lele Manzi, il ragioniere di Cremia. E tanti altri ancora, rimasti nel cuore degli appassionati più veri.
Ma è forse stato tra le “brevi” rubate a La Gazzetta dello Sport che Giovanni Viel ha reso il servizio più alto alla corsa in montagna italiana, regalandole spazi ogni volta che fosse possibile, facendo presa su passione e costanza, così come ha avuto modo di ricordare oggi con affetto anche Fausto Narducci sul sito federale.
In epoche di racconti spesso svenduti a logiche lontane dalla pura evidenza sportiva, a campionismi ed eroismi distanti anni luce dal suo credo professionale, anche oggi, nel tristissimo giorno in cui si spegne, la sua voce svetta come quella di un gigante.
E il suo racconto, volutamente e puramente terzo, rappresenta il filo di un discorso che meriterebbe di essere ripreso ad esempio, per tracciare con eleganza e rispetto i confini tra campioni veri e atleti volenterosi. Giovanni lo sapeva fare al meglio, con quella sua sensibilità rara nel raccontare anche le storie che profumavano di rinascita, quelle che forse gli piacevano di più.
Giovanni era un amico, un amico sincero: un orgoglio sottile anche il poterlo pensare. L’ultimo suo messaggio, seguito da paio di telefonate mancate, triste presagio di come si stavano mettendo le cose, nella notte thailandese di Chiang Mai. Nonostante tutto lui il primo, come tante altre volte, a rendere omaggio al successo iridato dei suoi uomini della montagna, quelli verso i quali mai aveva nascosto il suo affetto più totale e sincero.
Lieve non di certo l’ultimo tratto di strada, per te, caro Giovanni. Ma che ad accompagnarti possa essere ora almeno un poco del tanto affetto che hai regalato a questo mondo, a quella fatica sui sentieri che così forte ti ha fatto battere il cuore.
Un abbraccio forte,
Paolo Germanetto