Why Jim Walmsley’s 64:00 half in Houston matters

Perchè il 64:00 sulla mezza di Jim Walmsley a Houson è importante

-di Francesco Puppi

L’ultra-runner americano Jim Walmsley ha corso la mezza maratona di Houson, Texas, in 64:00.

Nell’era della specializzazione e dell’esasperazione della prestazione, è confortante vedere un atleta di questo livello, star mondiale dell’ultra e trailrunning, cimentarsi su una distanza e su un terreno che lo rendono estremamente vulnerabile e umanamente “normale”.

Perché sebbene 64:00 sia certamente un gran bel correre, è pur sempre 4’ superiore al tempo del keniano Shura Kitata vincitore l’altro ieri a Houston, e quasi 6’ distante dal primato mondiale. Appena sufficiente per un 27esimo posto, di nessuna rilevanza statistica nell’universo atletico delle maratone e corse su strada, dominato dall’Africa pur con qualche timida incursione europea o americana.

 

 

Amo l’atletica americana, che seguo con estremo interesse dai campionati NCAA al trail running, e che reputo molto più interessante e professionale dell’atletica di casa.

Walmsley, che aveva annunciato l’obiettivo di correre un OTQ (Olympic Time Qualifier, il tempo necessario per qualificarsi ai trials olimpici, 64:00) già all’inizio della stagione invernale, è riuscito a centrare l’obiettivo al centesimo, correndo una gara regolare sul filo dei 3’02”/km, aiutato dal pacing dell’amico/avversario Andy Wacker.

I suoi allenamenti sono visibili sul suo profilo Strava senza filtri né segreti. Basato a Flagstaff, AZ, ciò che colpisce di Walmsley è la pressoché totale assenza di doppi allenamenti nel suo training program, cosa che compensa con uscite spesso molto lunghe, anche superiori a 40km (alcune di 60-70km!) corse quasi sempre a buoni ritmi.

 

 

 

 

Il top athlete del team Hoka One One non è certo nuovo a questo tipo di specialità; come molti altri americani, vedi Max King, Andy Wacker e Hayden Hawks, che si spostano verso il mountain and trail running dopo aver orgogliosamente indossato la canotta dei rispettivi college di provenienza nei meeting NCAA, è in possesso di ottimi personali anche su pista (4’04’’ nel miglio, 13’52’’ nei 5000m).

 

 

 

 

Quest’anno è stato inserito tra i 50 fittest athletes, gli sportivi dal fisico più atletico, dalla rivista Sport Illustrated, una lista dove il solo altro atleta proveniente dal mondo della corsa è Eliud Kipchoge. Oltre a far saltare il banco nel forum di LetsRun.com, dove le opinioni di chi considera la prestazione di Walmsley una vera impresa e chi la declassa senza mezzi termini si sprecano, penso che la gara di Houston dia uno spunto di riflessione sul senso della prestazione, e sulla necessità che Jim deve avere avvertito per rimettersi in gioco e ritornare alle origini, verso il gesto più puro e completo della corsa.

 

 

 

“I will get clobbered by the top guys in the Houston Half Marathon this weekend” – questo weekend a Houston verrò distrutto dagli élite della corsa su strada. “Ma sarei lieto di invitare uno di loro al Grand Canyon per ribaltare la situazione” ha aggiunto con un pizzico di ironia.

Serve coraggio per uscire dalla routine, dalla comfort zone di ciò che si conosce e si è in grado controllare, specialmente per uno abituato – praticamente sempre – a vincere. Nel 2018 ha stabilito il record alla Western States 100 Endurance Run, per poi ritirarsi all’UTMB, gara che probabilmente non è mai riuscito ad interpretare al meglio.

Alla gente piace vincere, essere battuti fa paura.

Perdere la fa crescere.

Per questo apprezzo il 64:00 di Jim Wamsley, che per me vale più di tutte le sue vittorie sulle 100 miglia messe insieme. Ma che se non avesse vinto, non sarebbe Jim Walmsley.

 

 

E’ lo stesso motivo per cui non smetterò di correre su strada, di inseguire un traguardo insignificante a livello mondiale sulla mezza e sulla maratona, di prendere “ribaltate” in pista su 5000 e 10000. E’ il motivo per cui il 63’43’’ corso da Xavier Chevrier alla Roma-Ostia nel 2016 mi esalta, così come la prestazione di Cesare Maestri ieri al cross di Villa Lagarina. Mentre mi annoiano sempre più le vittorie scontate, le gare senza livello e competizione, gli applausi privi di cultura atletica che acclamano il vincitore di un trail o una corsa qualsiasi.

Non si vedono spesso atleti élite gareggiare su terreni e distanze fuori o appena fuori dal loro range di “sicurezza”, dove sono sicuri di fare risultato, vincere il premio, far contento lo sponsor. Chiaramente è impensabile di vedere Mo Farah partecipare a un mondiale di corsa in montagna, ma credo che l’intenzione sia chiara. E’ praticamente impossibile vedere un mezzofondista italiano professionista, mediamente un atleta militare, partecipare a una gara di corsa in montagna. Sorrido quando alcuni si lamentano della durezza del percorso di un cross, quando la maggior parte delle gare sono più simili a piste in erba che al cross-country delle origini.

Accade allo stesso modo che il trail runner medio sorvoli quando gli si chiede il personale nella maratona – “non è la mia specialità”. “Non vado in pista o su strada perché mi annoio, solo in montagna mi sento libero di esprimere il mio modo di correre”.

Penso che il mountain running sia interessante perché, come hanno ben sottolineato Paolo Germanetto e Renato Canova in un recente convegno a cui ho assistito, si pone su quella sottile linea di confine tra la necessità di correre forte in piano e di migliorare il lato tecnico specifico. Quale migliore occasione di lavorare su entrambi i fronti, di impegnarsi nell’uno e nell’altro senza sconti e senza scuse.

Non dobbiamo temere il confronto, in nessun caso. Correre forte sempre e ovunque.

Per questo il 64:00 di Jim Walmsley a Houston dovrebbe importarvi.

 

#AnySurfaceAnyDistance #RunFree #JimWalmsley #CoconinoCowboys #HouHalf #KickOfTheWeek

 

 

Francesco Puppi

@fra_puppinho