Qual’è il reale valore di un atleta oggi ?
se lo sono chiesti anche oltralpe, la media agency Athlete 2.0 che è sul mercato offrendo servizi di ufficio stampa per brand ed eventi ma anche supporto diretto per sviluppare e curare l’immagine degli atleti, ha pubblicato un interessantissimo articolo che affronta la questione del rapporto a volte deviato o quantomeno “forzato” che è venuto a crearsi tra Mercato, Percezione del Pubblico, Risultati Sportivi ed esposizione mediatica.
Lo sviluppo dei concetti e l’analisi sono stati realizzati con grande attenzione alle esperienze reali ed attuali, portando in dote le testimonianze di alcuni protagonisti del mercato e di esperienze che Athlete 2.0 ha toccato con mano dall’alto della sua posizione in un settore come quello del marketing e della comunicazione legati all’outdoor , concetti che in Francia sono decisamente una pista avanti a tutti.
“Dieci anni fa, i buoni risultati erano sufficienti per attrarre sponsor. Al giorno d’oggi non è più sufficiente, se facciamo buoni risultati, ma non siamo presenti sui social network e sugli altri supporti di comunicazione, i marchi non sono più interessati a noi. Viceversa, un atleta dilettante che comunica bene è un elemento attraente per i marchi”
A dare il “là” al pezzo è questa frase virgolettata, sono le parole di Julien Chorier ( https://fr.wikipedia.org/wiki/Julien_Chorier ) pluridecorato trail runner francese con all’attivo decine di vittorie e piazzamenti di prestigio, tra cui una vittoria alla CCC ed un 3° posto all’UTMB.
La constatazione di Chorier ci introduce al passo immediatamente successivo, simboleggiato dall’ovvia domanda che si rivolge idealmente a chi in questo settore fa business, le “marche”: Perché sponsorizzare un atleta ??
Si parte quindi dalla base, constatando in primis come i tempi siano cambiati, e come oggi chi produce materiali pretenda o cerchi dai propri testimonial la performance in due sfere distinte: sul campo di gara, sui mezzi di comunicazione.
Ma mentre una è frutto di allenamento e talento, l’altra porta in dote altri elementi che non dovrebbero essere decisivi nello stabilire una scala gerarchica o di merito tra gli atleti stessi.
Come tante, troppe volte ci siamo trovati a dibattere anche su queste pagine, va notato che l’azione talvolta troppo spregiudicata delle aziende in tal senso finisca per mistificare un certo tipo di messaggi, lo stesso articolo di Athlete 2.0 ad un certo punto constata:
È comune che un marchio, con una squadra di atleti e ambasciatori, richieda esattamente le stesse azioni e preveda le stesse ricompense per profili molto diversi. Es: un atleta pagato 5000 € all’anno e un ambasciatore che ha una dotazione materiale di 1000 € sono spesso messi nello stesso paniere. Questo è il tipo di situazione che solleva la questione! Pertanto, l’atleta deve animare le proprie reti, attivare diverse azioni di partenariato, menzionare e indossare il marchio in tutte le sue uscite, ecc … per contropartite a volte magre. Un equilibrio è necessario. Ed è un equilibrio che suppone che un atleta sappia come comunicare!
A noi sembra che in questo paragrafo vi siano la realtà ed una troppo semplicistica risoluzione di quello che è comunque una sorta di problema. E’ assolutamente vero che comunicare sia ora richiesta come prerogativa tra le peculiarità tecniche dell’atleta ma non può e non deve diventare la qualità preponderante.
Sullo scritto analizzato viene portato ad esempio anche il caso del trail runner Xavier Tevenard, una disamina perfetta, che richiama anche alcuni casi nostrani perfettamente calzanti (chissà perché ci dopo averlo letto continua ad apparirci davanti l’immagine , rigorosamente sfuocata come un contenuto mediatico fatto da uno come lui, di Alessandro Rambaldini, l’anti social per antonomasia ma con medaglie mondiali e capacità atletiche incredibili).
È la parte più interessante dell’articolo :
Se i social network sono il barometro più comunemente usato, non sono un fine. L’impatto di un atleta supera il numero di follower. Xavier Thévenard, che si riconosce come un non-seguace dei social network, ha tuttavia un impatto significativo a causa dei suoi eccezionali risultati e del riconoscimento della sua autenticità da parte della comunità dei trail running. La sua limitata presenza sui social network, quindi, gioca a suo favore perché afferma la sua autenticità. Perché un atleta che si dimentica di se stesso votandosi solo alla filosofia del LIKE non sarà molto utile per un marchio.
In un diagramma triangolare che mette al centro l’impatto ed ai tre angoli i risultati sportivi, la comunicazione e l’empatia generata si vedrà che questo triangolo può oscillare spostando le sommità anche a meta tra i vari indicatori. Ergo quella della facile e nuda transizione mentale: numero followers del testimonial = maggiore impatto mediatico = maggiori vendite del brand, non è del tutto veritiera, il diagramma del triangolo descritto sopra infatti riassume piuttosto le qualità che ci si possono aspettare da un atleta includendovi anche (vorremmo dire SOPRATTUTTO) le conquiste sportive e l’empatia generata (il sentimento suscitato in ognuno di noi dalle sue imprese , quelle reali misurate da un cronometro e riconosciute da un titolo vinto contro avversari di alto spessore possibilmente).
Sarà quindi un bilanciamento di questi tre poli a determinare l’impatto reale che produrrà. Il suo valore monetario reale deriva da questo impatto.
Tutto molto bello, tutto molto giusto, ma allora bisogna rivedere una serie di indicatori che negli ultimi anni hanno fuorviato l’ambiente, soprattutto bisogna fare delle considerazioni più attente anche in relazione a ciò che viene richiesto all’atleta per svolgere questa sua nuova “mansione”. Perché comunicare è una semplice parola, ma farlo bene, o farlo negli standard odierni che le marche giustamente richiedono, implica un impegno che si traduce in termini di tempo, tecnologia e know how.
Come giustamente Athlete 2.0 puntualizza , sarebbe il caso che nelle sponsorizzazioni venga prevista una voce di spesa relativa a questa attività, la dove l’atleta possa investire parte del supporto ricevuto in formazione e comunicazione o che sia l’azienda stessa, come in verità già avviene con i vari seminari o raduni organizzati in off season, a formare e passare le dritte giuste ai propri ambasciatori.
Se però vogliamo davvero dircela tutta, e qui salutiamo gli amici francesi, che ringraziamo per aver svolto davvero un bellissimo lavoro ed aver portato l’attenzione su un argomento che ci sta chiaramente molto a cuore, dovremmo anche ragionare sul fatto che un sistema che si basi sulle marche e sulle loro attività promozionali per sostenersi e raggiungere l’eccellenza è un sistema monco, e non è certo colpa delle aziende.
Lungi da noi infatti il voler demonizzare la piena libertà di decidere come e dove investire in immagine, pur notando che il sottobosco outdoor proliferi di troppi ambassador e di troppo pochi atleti di altissimo livello (mal comune del belpaese a quanto dicono le cronache recenti di politica interna, incoraggiate dai magri medaglieri delle ultime manifestazioni top dell atletica, e non solo).
Ma anche in questo caso è ingiusto dare addosso a gente che ha semplicemente investito il (proprio) tempo a curare il blog ed i profili social più che a fare le ripetute e sceglie con la lente d’ingrandimento le gare in cui competere affinché queste siano foriere di like e sovraesposizione del proprio profilo, anche a discapito della reale competitività o credibilità tecnico-agonistica.
E’ pur sempre un metodo che a quanto pare soddisfa chi opera commercialmente nel settore, ci chiediamo solo se faccia bene al sistema atleti, che boccheggia per cause socio-politiche e che cosi vede compromessa una buona occasione di integrazione ad un supporto che viene meno dalle istituzioni.
Per spiegare in maniera più cruda questo concetto ci limiteremo a fare notare che se oggi un amatore forte con una buona predisposizione alla comunicazione riesce a raggiungere accordi di sponsorizzazione con aziende significa che l’azienda riconosce in lui un veicolo ottimale per fare con 10 quello che le costerebbe 50 con un atleta che vive della propria attività sportiva o che comunque gareggia ad un livello tecnico tale per cui necessiti di supporto molto maggiore (leggi tempo e frequenza di allenamento, cure mediche e fisioterapiche, viaggi ecc.
L’amatore ha bisogno in primis di materiale, penserà lui a tutto il resto, gestendo gli allenamenti nelle pause lavoro, gareggiando vicino a casa e in eventi di medio profilo. E’ una constatazione, non una colpa.
L’atleta di alto livello ha bisogno di altro tipo di supporto che giustamente, secondo la nostra visione, non deve essere solo l’azienda tecnica a garantire, ma un sistema di merito che indichi al pubblico (e quindi di rimando alle aziende) quali siano veramente i campioni. Sarà questo meccanismo da solo a guidare i like ed a “fare il mercato” , fino a che la vittoria nel trail del salame celebrata con post patinato e citazione di Socrate genera like visti come indicatore di marketing continuerà questo status di auto flagellazione del sistema atleti.
Ok, forse siamo giunti ad una conclusione, a conforto delle idee esposte l’autore ha cercato un confronto diretto con un Runner offroad di alto profilo internazionale, che rimarrà anonimo, questo il suo commento dopo aver letto la bozza di questo articolo:
“di base sono d’accordo con il tuo ragionamento, che però non è così preoccupante come dici secondo me. Ho avuto a che fare con diversi mkt manager e loro confermano il bisogno di avere entrambe le figure sopra descritte, salvo poi operare degli enormi distinguo nei contratti”
Come spesso accade ci si fa prendere la mano, il nostro “man inside” ci dice che la situazione è sotto controllo, che muscoli, tatuaggi, addominali e occhiali scuri a fronte di un medio corso a 4′ fanno i like ma ancora non fanno un atleta e non vincono le gare importanti, e questo le aziende lo sanno…..