Troppo ghiotta per farsela scappare… l’avventura di Francesco (Puppi), Gloria (Giudici) e Tito (Tiberti) in quel della NY Marathon rischia di diventare il tormentone dell’autunno per la grande famiglia del mountain running, ed allora giocando sul titolo del capolavoro di Martin Scorsese ecco una rubrica tutta da leggere e da gustare.
Scriveranno tutti e tre, i nostri “inviati” speciali, e ci racconteranno sogni, attese, emozioni e realtà della Maratona più iconica del mondo, un viaggio nella grande Mela, rigorosamente di corsa, e con l’orgoglio di portare in giro per il mondo il vero grande sogno di tutti noi: #MOUNTAINRUNNINGOLYMPICDREAM
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First act – NYC marathon – di Francesco Puppi
Succede che tra 9 giorni si parte, un’altra volta oltreoceano. Andare in America è ormai alla facile portata di 8 ore di aereo, ma l’idea di attraversare un oceano mi trasmette sempre qualcosa di un poco elettrizzante e avventuroso. Noi europei siamo tendenzialmente meno inclini agli spostamenti rispetto ai cugini americani, abituati a viaggiare tra i Fifty States come noi lo siamo tra le regioni d’Italia…solo con una scala di un ordine di grandezza maggiore. Così per uno del Colorado è normale andare a gareggiare un weekend nel New Hampshire, sono solo 1991 miglia, cosa vuoi che sia..!
Così, dopo un’estate trascorsa a misurare di corsa le montagne di mezza catena alpina, dal Piemonte alla Slovenia, come in un disco di Pat Metheny (the road to you, fortemente consigliato) salto sull’ultimo treno che porta a ovest, nella stagione delle falling leaves. The road, metafora di innumerevoli romanzi e biografie, leads to New York.
Nell’anno del #breaking2, il tentativo di abbattere il muro delle 2h in maratona, c’è spazio anche per chi come me sa correre più lentamente, ispirato dalle parole di Eliud Kipchoge, steso sull’asfalto di Monza dopo l’impresa, “No human is limited. That’s my message. With a strong heart and a good mind, you can do it”, minimizzando l’impresa appena compiuta con la consueta flemma e umiltà. “The world is just 25 seconds away”. Umano, troppo umano: grazie, Eliud.
Tante volte quando sono vicino al limite penso alla bellezza del non farcela, dell’arrivare ad accarezzare il limite senza oltrepassarlo, renderlo possibile senza riuscirci. L’attrazione verso questo pensiero suscita in me un grande interesse, perchè lì percepisco del talento, del genio, del potenziale. Tante altre volte poi ci si arriva davvero a quel limite, e anche oltre, volutamente oppure no. E forse è ancora più bello.
Devo ammettere di averci pensato spesso durante i km di allenamenti, anche senza la magia della terra rossa, delle albe sulla Rift Valley, dell’incalzante tam-tam di passi sulla pista polverosa. La maratona è legata all’Africa e a uno dei motivi per cui ho iniziato a correre. Non ho corso tantissimi km come immaginavo, le difficoltà principali sono state al di fuori dell’atletica. Il tempo questa volta non è mancato, pur essendo alle prese con una tesi di laurea magistrale in fisica per cui sono al limite delle energie. Scrivo la tesi, vado a New York, corro la maratona, torno in Italia e finalmente mi laureo. Dov’è il problema? Tutto molto lineare.
Di New York Marathon ricordo la sfida all’ultimo metro di Paul Tergat e Hendrick Ramaala una decina di anni fa. Ramaala cadde sul traguardo in uno degli arrivi più epici di una maratona, Paul vinse per suggellare la leggenda.
Ricordo Susan Chepkemei che inevitabilmente finiva seconda dietro Jelena Prokopcuka o Paula Radcliffe dopo una gara all’attacco.
Ricordo che con i miei compagni di allenamento, da cadetti, mangiavamo frittelle e guardavamo la gara intera, la domenica pomeriggio. Anche se poi ci si distraeva sempre e si finiva a giocare a alley-oop nel campetto da basket a casa di Andrea.
Le vittorie di “Martino” Lel, Gomes dos Santos con il cappello, Margaret Okayo e Paula con le calze lunghe color carne mi hanno accompagnato nei primi anni di passione per l’atletica.
Nel passato più recente ricordo quando Gianni Poli mi incoraggiò in cima alla Maddalena, sopra la sua Brescia. Gli ricordavo il suo stile, mi disse. Lui vinse a New York nel 1986.
Lessi mille volte il racconto di Tito (http://www.titotiberti.it/la-mia-nycm-speziata.html) su una “giornata di ordinaria follia newyorkese”, quando ancora ci conoscevamo poco.
Rilessi i capitoli sulle fantastiche sensazioni di Geoffrey Mutai, raccontate nel libro “Due Ore”, di Ed Caesar.
Infine ricordo quando quest’anno decisi di iscrivermi a New York per quella che finalmente sarà la mia prima maratona. A New York mi vedo al 35°km a fare una fatica dell’accidenti, ma a divertirmi tantissimo.
Gloria, Francesca, Lorenzo, Francesco, Tito: New York is coming, ognuno porterà qualcosa di suo e lascerà un segno nella maratona più famosa del mondo. Sull’onda dell’entusiasmo per la sfida all’ultima curva con i cugini delle Valli Bergamasche al Trofeo Vanoni, ho chiuso nel migliore dei modi l’ultima, l’ultima davvero, gara di mountain running della stagione insieme ai compagni di squadra Alex Baldaccini e Nadir Cavagna. La fatica anche solo a scendere dal letto mi ricorda che la coperta è davvero corta e saranno due settimane in cui sarà essenziale essere conservativi, prestare attenzione a tutte quelle sensazioni che compongono i dettagli di una prestazione. Stay tuned, the best is yet to come !
Francesco Puppi