21 maggio 2015 – Il mondo dello sport vive di grandi emozioni. Grandi come quelle che, tanto più nella seconda parte degli anni Novanta del secolo scorso, seppe regalare allo sport italiano una donna valdostana che a correre forte aveva cominciato sin da giovanissima. Per poi perdersi un poco e ritrovarsi in modo sublime nella seconda e ultima parte della sua carriera: prima un bronzo europeo, poi in stretta successione un argento mondiale, un bronzo olimpico e la conquista di una non ancora mai scalfita leadership dai 2000 e ai 5000 metri. Il ritratto che Giorgio Cimbrico dedica a Roberta Brunet diventa anche un omaggio ad un grande allenatore, Oscar Barletta, e ad un giornalista, valdostano doc, che con passione infinita ha raccontato per la Rai storie di sport ed entusiasmo, toccando spesso anche il mondo della montagna e della corsa: Cesarino Cerise. di Giorgio Cimbrico La storia di Roberta Brunet, che il 20 maggio taglia il traguardo dei 50 anni (suona strano, ma è così), può esser accostata a My Fair Lady. Anche qui c’è un pigmalione che crede sino in fondo, dà forma, non si abbatte, va avanti con l’ottimismo della volontà, riesce a centrare l’obiettivo: nel musical e nel film era Rex Harrison, nella vicenda della ragazza con la fascia attorno alla fronte è Oscar Barletta, etrusco entusiasta, uomo buono, senza finte vanaglorie, senza orpelli. Un grande allenatore che per l’atletica ha lavorato per un’era: se n’è andato a 95 anni e più di settanta li ha passati in campo. Ma nella vicenda di uno dei punti fermi del mezzofondo azzurro c’è anche un altro personaggio: Cesarino Cerise, una specie di mite orso, una perfetta controfigura di Porthos, di Roberta era il primo tifoso, il biografo, l’annalista. Quando a Spalato andò in scena un atteso “Saranno Famosi”, venne intervistato lui quanto lei. Valdostani a denominazione di origine controllata: Brunet e Cerise, italianizzazione dal francese ciliegie. Ai tempi dell’uomo di Predappio, Courmayeur divenne Cormaiori, St Vincent San Vincenzo e Chatillon Castiglione Dora.
Per fortuna o per caso, la famiglia Brunet non diventò Brunetti. Roberta è stata una delle non moltissime italiane a salire sul podio olimpico: capitò ad Atlanta ‘96, per la prima assoluta dei 5000, nella sera umida che tolse di scena per un imbarazzante problema intestinale l’irlandese Sonia O’Sullivan e che confermò la superiorità netta, troppo netta, di Wang Junxia, punta di lancia del Reparto Rosso Femminile di Ma Juren, la figlia del pescatore che nella sua rete aveva catturato un record del mondo dei 10000 con 42” di progresso su quello, che già pareva impressionante, di Ingrid Kristiansen. Morale alto, molare bizzoso: in un gioco di parole, quella gara, dietro la cinese e a Pauline Konga, strano ma vero la prima kenyana a conquistare una medaglia olimpica. Superati i problemi di debilitazione da antibiotico: in palio c’era qualcosa di grosso e ci voleva un eccesso per battere un ascesso. Il bronzo strappato in Georgia andava a tenere compagnia alla stessa medaglia di Spalato ’90 sui 3000, alle spalle della scozzese Yvonne Murray e della sovietica Yelena Romanova. Per la mamma di Dominique, che oggi dovrebbe essere sui 25 anni, si trattava di metter le mani su qualcosa di più e meglio prima di chiudere e così venne l’argento sui 5000 mondiali di Atene ’97, a sei decimi dallo scricciolo romeno Gabriela Szabo, il terzo capolavoro che regalò l’ennesima trasfigurazione al vecchio Oscar. Dopo la collezione di medaglie, la collezione di titoli italiani, tredici, e quella dei record: dopo vent’anni Roberta è primatista nazionale dei 2000, 5’32”83, dei 3000, 8’35”65, dei 5000, 14’44”50. E sulla consistenza dei tempi, non è necessario alcun commento. Fonte: fidal.itHome page » Roberta Brunet: l’omaggio ad una grandissima
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