A Kamnik, donne dorate, uomini di bronzo. Sempre più complesso lo scenario internazionale, con l’Africa padrona della gara maschile. L’ennesimo argento di Valentina Belotti ed altre riflessioni Un oro e un argento, tutti al femminile, per provare a dire che l’Italia è ancora là, sul tetto del mondo. Due bronzi, tutti al maschile, ad insinuare però, con forza, il dubbio che ormai più dirci non possiamo la Nazione guida del movimento. Eritrea e Turchia, loro almeno, a rivendicare con diritto il medesimo ruolo, forti di tendenze rafforzatesi negli anni: i primi ad aprire strade in quel Continente ora sempre più percorse, i secondi a confermare la loro schiacciante supremazia in ambito giovanile. Quattro sono le medaglie con cui la corsa in montagna azzurra torna dai Mondiali sloveni di Kamnik. Mondiali di sola salita, con la nebbia a nascondere le sagome dei campioni sin quasi all’arrivo, ma non le reali difficoltà del movimento italiano, non le pecche di organizzazione cui non difetta l’impegno, ma raffazzonata in più di qualche aspetto. A dirlo non noi, ma altri e pure decisamente più autorevoli, che il dito puntano direttamente sulla WMRA: se il passaggio da Coppa del Mondo a Campionato questo voleva dire, tanto valeva meno affidarsi alla chirurgia estetica e stretta tenerci la ”vecchietta” di prima? Seconda, ancora? – Gioire soltanto o rammaricarsi per il nuovo spuntar di un’altra quel dì più brava: ennesimo argento, ennesimo dubbio per Valentina Belotti, che dal secondo gradino del podio, tra Europei e Mondiali, più non scende da Telfes 2009. Quattro argenti consecutivi, questo solo il motivo per aggiungere un ”però” ad un ”bravissima” che meglio legge la nuova grande impresa della camuna del Runner Team Volpiano. Contro l’Andrea Mayr che a Kamnik fa tripletta iridata, contro la campionessa che sulla sola salita già d’oro si era vestita a Bursa 2006 e Crans Montana 2008, contro la primatista austriaca di siepi, maratonina e maratona, davvero poco, anche questa volta, c’era da fare. E l’accento, piuttosto, va così posto sull’esiguo distacco accumulato dalla Belotti, per di più capace di costringere al bronzo l’attesissima svizzera Martina Strahl , reduce dagli Europei di Barcellona ? undicesima sui 10000 – e lo scorso anno, a Telfes, pure lei nel ruolo di chi ”quel dì più brava” della ”bravissima” Valentina. Podio nobile come raramente mai, ai cui piedi si accomodano altre grandissime. A cominciare dalla russa Svetlana Semova, il cui cognome da maritata, un po’come la nebbia, finisce per nascondere invece gran blasone e ”grande rentrée”: lei la Demidenko che dominò la scena a Bergen 2000 e ad Innsbruck 2002, per poi maggiormente indirizzare il suo talento verso altri atletici lidi. Dietro di lei, sino al quinto posto si issa una splendida Mateja Kosovelj, che al termine di anno speso a crescere sui sentieri italiani, il miglior risultato di sempre a livello assoluto regala alla sua Slovenia. Sesta e un poco delusa, la seconda delle azzurre, un’Antonella Confortola che certo si conferma tra le migliori, ma che molto può però recriminare sulla caduta in cui incappa nelle fasi di partenza. Da ultima riparte e il grande sforzo compiuto per rientrare celermente sulle migliori, il conto le presenta quando la gara entra nel vivo. E alla sfortunata forestale trentina un poco sembra di rivivere quel maledetto ruzzolone ? là, sci stretti ai piedi – nel lancio della staffetta iridata di Liberec 2009? Italia questa volta comunque d’oro, dopo strenua battaglia con una Svizzera pure lei capace di piazzare tre donne tra le dieci. Con la Russia più lontana e di bronzo, è l’ennesima magia di Maria Grazia Roberti, nona, a regalare alle azzurre un successo che pure poteva essere pronosticato, ma nella realtà dei fatti maturato con fatica pari al pieno merito. Incredibile, ancora una volta, la capacità della capitana azzurra di superarsi nell’agone più difficile, facendo messe di avversarie sino all’ultimo dei metri utili, con il solito mix di esperienza e carattere. Sul gradino più alto del podio, insieme alle tre azzurre da copertina, pure sale Alice Gaggi, il cui trentesimo posto va chiaramente letto come investimento per il futuro. Un futuro cui dedicare però il massimo impegno, perché ovvio o quasi è dire che non così dorato è il risvolto anagrafico della pagina più bella della corsa in montagna italiana in quel di Kamnik. Gli uomini – Mai così tanta Africa là davanti, mai di bronzo gli uomini azzurri, che ad Uganda e Turchia con i denti alla fine strappano una medaglia mai così sofferta. A quell’oro per ventitre volte finito nel carniere azzurro, obbiettivamente, già si era dovuto rinunciare o quasi alla vigilia, ma alla fine un grazie occorre pure dirlo al cinquantasettesimo posto del quarto ugandese ? James Kibet, bronzo nel 2009 ? e al crollo di almeno due delle quattro punte francesi. L’infausto infortunio di Martin Dematteis, il dover fare i conti con le non ottimali condizioni del gemello Bernard e di Marco De Gasperi – ai quali, a loro pure, anche un semplice grazie va comunque detto? – certo contribuiscono a spiegare le difficoltà sul campo ritrovate dalla squadra più titolata di sempre dell’atletica italiana. In una storia iridata ormai capace di superare il quarto di secolo, son queste però vicende che fanno parte del gioco e che pure parimenti attraversano i destini delle altre Nazioni. Un errore sarebbe dunque qui stoppare un’analisi che nelle opportune sedi merita invece di essere molto più approfondita. Riflessioni che, in ogni caso, pure salutano la grande prova del piemontese Gabriele Abate, alla vigilia ritrovatosi a ricoprire un inconsueto ruolo di punta, sul campo poi coperto con grande determinazione. Nel giorno in cui l’Africa monopolizza il podio e non solo, prezioso per davvero è il suo undicesimo posto, con il solo turco Ahmet Arslan a precederlo tra gli europei. Onore al merito per il valsusino e per il suo tecnico Piergiorgio Chiampo, capaci di arrivare all’appuntamento iridato al massimo della condizione. E se dopo una delle sue migliori gare di sempre, per Abate migliore non è la classifica finale, molto va ascritto ai valori sul campo da altri espressi. Là davanti le sole Eritrea ed Uganda, se è vero che oltre ad Ahmet Arslan, settimo, nei primi dieci pure si inseriscono solamente sua maestà Jonathan Wyatt, ottavo, e il bravissimo americano Joseph Gray, decimo. Detto di De Gasperi e di Bernard Dematteis, è il venticinquesimo posto di Antonio Toninelli a valere il bronzo finale, alle spalle degli Stati Uniti, sorprendenti sì, ma neppure troppo. Bravo il bergamasco a recuperare, nel tratto finale, una decina di posizioni: quelle che, a conti fatti, all’Italia ancora valgono la medaglia. Trentacinquesimo Gerd Frick, trentasettesimo Tommaso Vaccina: matricola azzurra il secondo, già azzurro il primo (ma mai in rassegne continentali o iridate) il secondo, entrambi il cuore comunque gettano in una delle mischie più difficili di sempre nella storia del confronto mondiale. Samson Gashazghi, ventiseienne eritreo, a succedere dunque a Geoffrey Kusuro, l’ugandese che con il suo bronzo si conferma comunque a medaglia. Lì in mezzo, ancora una volta, Teklay Weldemariam, ulteriore eritreo che argento fu anche nel 2009. Come a Campodolcino, solo Africa dunque sul podio: tendenza a cui ci si dovrà sempre più abituare in futuro, specie sui percorsi di sola salita. Un bene, in termini di dignità tecnica da offrire agli osservatori esterni. Proprio finita per gli antichi dominatori? Non così semplice dirlo, ma se il dubbio si vuole almeno conservare, imprescindibile pare in qualche modo difendere gli aspetti più tecnici della disciplina, almeno sui tracciati di salita e discesa, per loro natura più propensi ad esaltarli. Se a contare è il solo motore, ingenuo pensare che la sfida non diventi sempre più simile a quella che attraversa ogni altro settore della fatica declinata al gesto della corsa. Nel caso dell’Eritrea, pure va aggiunto, però, che da quelle parti ormai esista una vera e propria scuola della corsa in montagna, con atleti sistematicamente chiamati a lavorare con quelli dei settori più tradizionali e spesso anche mandati a condividerne esperienze agonistiche internazionali. Pur con diversi bacini da cui attingere nuova linfa, per sopravvivere o risalire la china, differente non pare poter essere anche la strategia per le scuole più tradizionali, Italia compresa. Le prove degli juniores ? Un bronzo e un ottavo posto: questo dicono le classifiche per i giovani azzurri. Un poco soffrono, ma compatti rimangono gli azzurrini, più faticano a trovare spazio le azzurrine. Turchia a dominare il contesto, tanto al femminile quanto al maschile, laddove però l’eritreo Yossief Andemichael, pur destando qualche dubbio legato all’anagrafe, solco importante scava tra sé e gli altri medagliati. Con al collo i due ori a squadre, la Turchia tra i giovani festeggia anche a livello individuale: un oro ? quello della ”replicante” Yasemin Can tra le donne ? due argenti, e altri piazzamenti a ridosso del podio, per una scuola che però, Ahmet Arslan a parte, ancora fatica a trasformare in successi tra gli assoluti i ripetuti domini tra gli juniores. Sul podio individuale si rivedono anche il Belgio ? il bronzo dell’atteso Jente Joly ? e la Francia, che al terzo posto di Adelaide Pantheon pure abbina il bel quinto posto di Michael Gras. Tra le donne conferme arrivano anche da Romania e Gran Bretagna ? loro sul podio alle spalle della Turchia – , mentre rinasce anche la Germania, seconda al maschile proprio davanti gli azzurrini. All’Italia dei giovani, manca l’acuto individuale, quello che alla vigilia si sognava potessero realizzare Letizia Titon, Paolo Ruatti e Andrea De Biasi. La veneta, per sua stessa onesta ammissione, non trova la grande giornata e chiude quindicesima, dietro più di qualcuna preceduta invece agli Europei. Con Cristina Mondino, venticinquesima, e Silvia Zubani, ventottesima, l’Italia è ottava: a loro comunque si aggrappa per impostare non facile lavoro futuro. Onesti pure loro nel dirlo, ma grandissima giornata neppure trovano Paolo Ruatti, undicesimo, e Andrea De Biasi, diciottesimo, comunque bravi a tenere duro per portare a casa un bronzo che pareva aver preso altre vie. Nel coglierlo, forte è il contributo offerto da Massimo Farcoz, il valdostano che con il suo dodicesimo posto segna una delle più belle e gradite sorprese dell’intera spedizione azzurra. Un po’ più lontano Alex Cavallar, ma il bronzo a squadre, pure per lui, può essere base da cui partire. Per l’Italia che sarà, in ogni caso, il vero allarme non viene dai risultati degli azzurrini, il cui impegno e le cui prove sempre e in ogni caso ci sentiamo di sostenere. Viene piuttosto dai numeri che il movimento esprime a livello nazionale, viene dal sempre difficile interscambio con gli altri settori: aspetti per affrontare i quali servono strategie ben precise e su cui indispensabile per davvero non perdere neppure un attimo per aprire la riflessione. Paolo Germanetto Gashazghi e Weldemariam, una volata tutta eritrea Massimo Farcoz Podio iridato Gabriele Abate, il migliore degli azzurri