Il nostro punto

Un Mondiale a due facce, una azzurra, l’altra africana. Azzurro e terso è il cielo all’Alpe Motta, ma delle stesse tinte si colora pure l’intero podio femminile. Sono i sorrisi di Elisa, Valentina e Maria Grazia  a guadagnarsi la copertina. Donne vincenti e “piangenti” che  pure devono stringersi per lasciare un poco di spazio a giovane cavallo di razza che riporta l’Italia laddove non saliva da sette anni: è Xavier Chevrier il nuovo campione del mondo tra gli juniores.    

Molta Italia, non poca Turchia, pure un po’ di posto al sole per Stati Uniti, Gran Bretagna e realtà emergenti dell’Est europeo: tutto come da tradizione, antica e più recente, sino all’inizio della prova maschile, quella che in un botto solo riscrive la geografia dell’atletica votata a prati e sentieri. L’Africa è arrivata, e lo fa con convinzione superiore al passato: occorre fare appello a lettura attenta per evitare che in secondo piano vengano messe le prestazioni  pur notevoli dei nostri migliori alfieri.

 

Donne azzurre – Era dalla Coppa Europa di Sestriere 1998 che un podio internazionale femminile, nella corsa in montagna, non si vestiva interamente di tricolore. Quel giorno Rota Gelpi, Gaviglio e Baronchelli, oggi, nel momento in cui altro passo compie il movimento internazionale, tocca ad Elisa Desco, Valentina Belotti e Maria Grazia Roberti (che quella volta a Sestriere fu quarta…) realizzare impresa che nemmeno i vaticini più favorevoli avrebbero potuto augurare. Gara appassionante quella femminile, tra fughe solitarie e rimonte clamorose. E’il suo dipanarsi a chiedere di fermarsi dapprima sul “piccolo dramma” di Valentina Belotti, la camuna che a metà gara pareva avere saldamente in mano la situazione. La tensione di sapersi tra le massime favorite, più di ogni altra cosa, la spinge ad involarsi da sola ancor prima del culmine della prima salita. Sembra volare in quel primo giro, ma la seconda tornata diventa per lei tutta in salita, anche quando l’ascesa lascia in realtà spazio alla discesa. Ne scaturisce un argento su cui, prima di partire, avrebbe messo la firma, ma che indubbiamente le lascia un po’ di amaro in bocca. La prima a dichiarare che forse sarebbe potuta andare diversamente è quella minuta e grintosissima ragazza per la quale la seconda tornata si tramuta invece in uno splendido trampolino di lancio, in un volano capace di sciogliere in un colpo solo tutti i dubbi della vigilia. Un inno al carattere, l’oro iridato di Elisa Desco, “fatina leonessa”che nel suo anno più difficile, dopo la sbornia del 2008, risorge inaspettatamente, e proprio nel momento più importante della stagione. Non sono doti agonistiche comuni le sue, e anche il presidente federale Franco Arese, al traguardo, lo ripeteva a viva voce, non facendo mistero di sperare di poterla presto rivedere a pieno servizio anche nel cross e nella maratona. Lei e una Belotti divisa tra gioia e rammarico: rinate dopo infortuni importanti, anche grazie ad investimenti personali non secondari sulla propria preparazione.  Gli stessi che non sono mancati ad una splendida Maria Grazia Roberti, all’Alpe Motta salita ben prima del weekend iridato, per adattarsi alla quota e sognare di poter dare un sigillo di pregio ad una carriera eterna, in cui le gioie individuali erano sempre state minori rispetto ai sacrifici spesi per la causa azzurra. Più lacrime che chilometri, più sorrisi che fatica: quanto è bello questo bronzo per la quarantatreenne (!) bresciana, “operaia della montagna” che deve tornare all’argento europeo di Llamaberis 1996 per riscoprire gioia così intensa. Ma questa volta, ne siamo certi, è per lei più dolce ancora il sapore da assaporare…

In tale miscuglio di emozioni, rischia di finire nel dimenticatoio la ventiduesima piazza di Cristina Scolari: altra bresciana, altra mammina volante. L’esempio di Maria Grazia,  per sognare anche lei cose più belle ancora di un oro a squadre nel suo futuro prossimo.

 

Juniores – La doppietta di Stefano Scaini  – Arta Terme 2001, Innsbruck 2002 -, per poi tornare indietro alla “meteora” Beniamino Lubrini – Kota Kinabalu 1999 –, sino a trovare altro giovane che tutt’altro che meteora sarebbe poi stato, il “bandanato” Marco De Gasperi di Telfes 1996. Anche fermando qui il cammino a ritroso nel tempo, non mancano i termini di paragone pesanti per il disincantato talento valdostano che domenica, davvero, non ha trovato avversari in grado di fermarlo. Tatticamente accorto e consapevole delle importanti doti da poter mettere in campo, il secondo giro di Xavier Chevrier è inno allo spettacolo, tributo ai tanti valdostani saliti in Valle Spluga per tifare un gioiellino capace di innamorare sportivamente anche Cesarino Cerise, la quint’essenza del giornalismo Rai in Valle d’Aosta. La Turchia, con Bayram e Demir,  si ferma ai piedi di Xavier, mentre ai piedi… del podio, intanto, la sua pagina sportiva più bella di sempre è intento a scrivere l’agordino Luca Cagnati: il “capriolo di san Vito” è quinto, là dove forse nemmeno aveva osato sperare. Applausi strappano anche il decimo posto di Kelemu Crippa e l’undicesimo di un Marco Leoni, al traguardo trascinato anche dal tifo della sua gente. Per due punti soltanto, l’Italia chiude alle spalle di una Turchia che i punti fondamentali trova in un ragazzino, Nuri Komur, che dalle nostre parti sarebbe ancora un primo anno tra gli allievi…

Oltremodo turca, ma oltremodo pure allieva, è di fatto anche la nuova campionessa mondiale juniores: terza agli Europei di Telfes, Yasemin Can festeggia prima da sola e poi con le compagne di squadra. Con la statunitense Morgan all’argento e la polacca Mach al bronzo, quello delle juniores diventa l’unico podio individuale di giornata a vedere tre differenti bandiere issarsi sul pennone.

Azzurrine brave come non succedeva da qualche stagione: decima la novarese Federica Cerutti – la più in forma delle nostre – undicesima la valsesiana, neo tricolore, Erika Forni, quattordicesima la saluzzese Cristina Mondino: tre piemontesi a regalare prestazioni tra loro non dissimili, per un positivo quarto posto finale ad un solo punto dal bronzo della Polonia.

 

Seniores uomini – Corsa in montagna nuova quella che salutano i pascoli dell’Alpe Motta: Lago Azzurro e Madonna d’Europa ben si prestano a divenire il teatro in cui l’Africa che assaggia la montagna mette la freccia e saluta la compagnia. Eritrea e Uganda su tutti, insieme ad un tocco di Ruanda, per far sì che nelle prime dodici piazze spazio non ci sia che per quattro sagome bianche. Insieme a quella del campione europeo Arslan, tre di queste vestono però la maglia azzurra, rendendosi protagoniste di prove cui la classifica finale finisce per non rendere sino in fondo giustizia, se non si prova almeno a guardare al cronometro oltre che alle posizioni.  E’ Geoffrey Kusuro l’assoluto dominatore della scena: parte più cauto di altri, ma la tornata finale è passerella trionfale per il ventenne mezzofondista ugandese che, in montagna, già aveva trionfato nel 2007 tra gli juniores. Con lui sul podio l’eritreo Weldemariam e un altro ugandese, James Kibet, che la gioia di un bronzo di poco nega ad un grandissimo Bernard Dematteis, il migliore degli azzurri, che quarto chiude come lo scorso anno a Crans Montana.  

Manca il metallo, tangibile, da stringere tra i denti, ma non può esserci rammarico nella prestazione di chi in campo ha ancora una volta saputo mettere tutto se stesso e forse anche di più. Per due terzi di gara in coppia con Bernard, poi al traguardo ottavo, una dozzina di secondi dietro. In mezzo altra Africa, ivi compreso lo “spauracchio” ruandese Simukeka. Non finisce come sperava il Mondiale casalingo o quasi di Marco De Gasperi: è ancora lì, protagonista e tra i migliori, capace di dare, sempre e comunque, il suo contributo alla causa azzurra, capace di portare sul percorso mole incredibile di tifosi, ma come fare a dirlo a chi era abituato diversamente…Berny e De Gasperi nel cuore della lotta per il podio, mentre da dietro è semplicemente fantastica la rimonta di Martin, che al traguardo soli ventisei secondi rende all’altro Dematteis: in annata straordinaria, altra perla per il gemellino cuneese, una nona piazza iridata, rubata sulla linea del traguardo al dominatore degli ultimi tre campionati continentali, il turco Ahmet Arslan, che al bronzo di squadra trascina i suoi. Come da possibili  previsioni e come in fondo pure auspicabile se lo sguardo da nazionalista si fa  promotore  della crescita del movimento, l’Eritrea ripete il blitz di Bursa 2006. Questa volta accade su tracciati misti, e il cerchio allora si chiude. Italia costretta ad abdicare una seconda volta, ma come massimo traguardo possibile, alla luce dei fatti, va salutato un argento difeso soprattutto da un’Uganda cui viene a mancare il quarto uomo, e alla cui conquista pur contribuisce il diciottesimo posto del miglior  Emanuele Manzi delle ultime stagioni. Poco dietro, il duo dell’Orecchiella, con Gabriele Abate ventiduesimo e con Marco Gaiardo ventinovesimo.

 

 

Altre divagazioni – Di proposito abbiamo voluto separare l’esame delle gare da altre considerazioni. Per evitare che il giusto tributo ai protagonisti di giornata potesse essere confuso con altre annotazioni che pur ci pare giusto non tralasciare.

Quanto si è discusso, alla vigilia, sul tracciato di gara e sulla sua “tecnicità”! Polemiche certo avviate da alcuni big azzurri, ma certo pur rinfocolate da altre successive dichiarazioni. All’indomani delle gare, non ci pare che quegli stessi big si fossero poi così tanto sbagliati. Si può discutere su tempi e modi delle dichiarazioni, ma chi se non gli atleti più forti chiamati a giocarsi in casa l’appuntamento clou della stagione dovrebbero poter esprimere il proprio parere? Tutti hanno gareggiato sullo stesso tracciato, onore dunque, senza remora alcuna, a chi è stato più bravo. Ma la corsa in montagna più autentica, un poco come la marcia  – per terreni di gara la prima, per gesto atletico la seconda – , vive anche di aspetti tecnici importanti, gli unici che possano permettere ad atleti organicamente inferiori di poter competere con i “mostri” africani. Mentre a livello internazionale continua ad essere sempre più improcrastinabile una seria e non casuale disamina degli aspetti legati ai percorsi di gara, noi rimaniamo della nostra idea: la discesa di questi Mondiali non era tecnica, o lo era molto poco. E pur con i limiti dati da scelte precedenti, da morfologia territoriale, da clima pre-elettorale in casa WMRA, di fatto l’Italia si è un poco discostata da una tradizione che l’ha sempre vista come strenuo difensore delle discese tecnicamente impegnative, ruolo che sarà in futuro ora un poco più complesso far pesare quando la rassegna iridata si correrà in casa altrui.

 

Di rassegne iridate, dal 1992 in poi, poche ne abbiamo mancate. E sotto più di qualche aspetto, quella messa in campo da Campodolcino e Madesimo può di certo essere annoverata tra le migliori di sempre a livello organizzativo. A noi molto è piaciuta, ad esempio, la cerimonia di apertura a Chiavenna, così come la cura di quello stesso tracciato su cui abbiamo avanzato qualche perplessità. Notevole poi, la risposta del pubblico, con le fotografie delle gare, in giornata che migliore non poteva essere climaticamente parlando, a dare segni tangibili delle emozioni che la specialità può suscitare.

Di più ne avrebbe però potuto suscitare se all’evento si fosse riusciti a dare maggior risalto mediatico. Il rischio è, invece, che una due giorni bellissima rimanga confinata tra le montagne della Valle Spluga e della Valle Chiavenna. Non entriamo troppo nel merito, ma è un fatto che i due precedenti mondiali disputati in Italia avessero goduto di diretta televisiva. Così come è un fatto che ad oggi da parte del comitato organizzatore ancor non sia stato partorito un comunicato post gara. Non sarà solo un problema della singola realtà organizzativa, ma così il movimento non cresce. Se però dalle alte sfere della federazione mondiale ci informano che “la comunicazione non è fatto prioritario”, allora forte ci viene il sospetto che a sbagliare qualcosa sia probabilmente chi anima e cuore, in questi ultimi anni, ha messo in campo per cercare di far conoscere di più e meglio questa nostra corsa in montagna.

 

Paolo Germanetto